Negozi di dischi e giornalismo musicale. Due importanti fattori in cui il nostro bel paese non eccelle. Non bisogna nasconderlo, anche se a malincuore. Spesso chiusi nel nostro provincialismo, nella difficoltà a programmare a lungo termine e nel modernissimo egocentrismo di chi usa la penna, non solo abbiamo smarrito punti di riferimento virtuosi e autorevoli della critica musicale, ma anche importantissimi luoghi di aggregazione e circolo di idee come i tanto narrati record shop.
L’idea di Pogo! non è certo quella di lanciare critiche, ma di portare alla luce esempi cristallini di chi testardamente ha fatto le cose controcorrente e può essere motivo d’ispirazione per tutti noi. Maurizio Blatto è una di queste lucenti mosche bianche. Uno dei migliori scrittori sulla musica che abbiamo in Italia, e proprietario del negozio di dischi torinese Backdoor. Uno di quelli che non teme confronti con i record shop inglesi, tedeschi o americani. Oltre a gestirlo e a fare da commesso, da anni scrive su importanti riviste di settore, ha pubblicato tre libri ed è appassionato di calcio.
Una carriera che sembra uscita da una romanzo inglese. Maurizio, viene spontaneo chiederti come hai intrapreso questa strada?
Diciamo che ci ho molto lavorato. Con ostinazione e un po’ di follia. Ho mollato la mia carriera da avvocato quando era ancora ai nastri di partenza, ma l’ho pur sempre cestinata in favore del rock’n’roll. Credendo che potesse essere un mestiere vero. Come accade appunto in Inghilterra, mia nazione affettiva e di riferimento. Ho scritto molto, principalmente perché mi piace, ma anche perché ho sempre immaginato che solo così avrei trovato il mio “stile”, una dimensione narrativa che potesse facilmente essere ricondotta alla mia firma. Poi, banalmente, continuo a cercare di fare le cose che mi piacciono e che sì, mi rendono felice. E lo fanno senza sosta. Un disco, un libro e io sono a posto. Sul calcio, invece, sono più tiepido di un tempo. Non frequento più la curva (Maratona, sono del Toro) e lo vedo poco. Seguo più il calcio inglese (tifo Tottenham) e mi appassiono al suo racconto, all’epica forse smarrita del calcio con cui sono cresciuto. Qui, lo ammetto, sono un po’ nostalgico. Calcisticamente parlando, sono più da ristampa, che da novità.
“L’ultimo disco dei Mohicani”, il tuo primo libro, è ormai considerato un classico. Ci daresti un piccolo aggiornamento: un cliente del tuo negozio che, in anni recenti, vuoi raccontare?
Sono passati dieci anni da quando l’ho pubblicato, ma il mondo è molto cambiato. Non ci sono più personaggi così caratterizzati e duraturi. Il “matto” che entra e dice una scemenza, la richiesta bizzarra che fa ridere, non mancano mai. A latitare è il bizzarro nel tempo. Io temo che i social abbiano influito nefastamente anche in questo. Si è più preoccupati di apparire “strani”, si teme il giudizio costante e, inevitabilmente, ci si censura in partenza. Non ci si espone troppo. Il che umanamente (e letterariamente) è una gran noia.
“Sto ascoltando dei dischi”, il tuo ultimo libro è un viaggio autobiografico nella tua musica. Trovo che sia più personale rispetto a “L’ultimo disco dei Mohicani”, ci sono molti “pezzi di te stesso”. Dal punto di vista creativo è stato facile “uscire dal negozio” per raccontare di episodi della tua vita e di luoghi della tua memoria? Quanto credi che possa il vissuto influenzare gli ascolti nella vita di ogni persona?
Nel “Mohicano” il negozio era al centro. Qui lo sono io. La prospettiva cambia perché là era una commedia all’italiana, qui la pretesa è una roba alla Woody Allen. Vi spiego le mie follie, vi guardo dritto, non faccio prigionieri. Sono matto? Volete curarmi? Pensate abbia troppi dischi? Dovrei “crescere”? E allora a difendermi e spiegarmi, sono le canzoni di cui parlo. Per me vissuto e ascolti sono indissolubilmente legati. È come se fossi perennemente dentro una canzone. Ma in qualche modo, pur con un peso differente, è così per tutti, persino per gli ascoltatori distratti. Chi non cerca riparo, consolazione, divertimento ed eccitazione in una canzone?”
Come recuperi gli album da mettere in negozio? Lavori con i distributori o anche direttamente con le etichette/band?
Entrambi. Mi piacciono le persone, cerco di instaurare rapporti di fiducia duraturi nel tempo. Spesso le spese di spedizione e le quantità minime richieste per gli ordini complicano le possibilità di poter lavorare direttamente con le etichette, ma mi piacerebbe poterlo fare di più.
Molti negozi di dischi hanno allargato la loro offerta a libri, magliette ufficiali, gadget vari e stampa musicale estera. Pensi che sia un passo necessario? Come pensi che si evolverà o debba evolversi il concetto di negozio di dischi?
Penso che abbia senso se è in linea con il negozio. Per capirci, t-shirt o gadget di band che ami o supporti, di realtà che trovi affini alla tua. Tutto deve essere sensato rispetto alla tua attività indipendente. Una replica di una maglietta 70s degli Stones, per quanto fighissima, mi interessa meno di quella del gruppo pop del mio quartiere. In generale vorrei avere da Backdoor più spazio per libri, riviste, persino per un frigo o una macchina del caffè, ma il problema è, appunto, lo spazio. Io credo in una de-evolution del negozio di dischi: deve tornare al suo concetto fondante, quello di essere un luogo dove entra gente che ha una passione in comune, è curiosa, sa di potersi prendere il suo tempo migliore. Ma che compra anche, ovvio…
Com’è cambiata negli ultimi 20 anni la scena indipendente dal tuo punto di vista? Ci si è spostati sempre di più sul digitale, ma nessuno sta abbandonando il formato fisico… cd o vinile?
Secondo me la scena indipendente è troppo poco indipendente. Provo a spiegarmi. Non sono affatto uno snob, io vorrei che i gruppi che amo avessero massima visibilità e successo, ma alle loro condizioni. Non a quelle scimmiottate da un mondo artistico svilito dall’apparenza. Secondo me la fusione tra mondo mainstream e indie è stata un tragedia. Musicalmente, esteticamente e come attitudine. Il metodo Pitchfork, per capirci. A me, di Miley Cyrus, per dire, non frega assolutamente nulla. A ognuno il proprio ambito. E disprezzo l’ostentazione del lusso e il machismo della trap e dell’hip pop. Io voglio gente come i R.E.M.. Talento e dignità. O il gruppo minuscolo, che tira dritto, e fa le cose come e quando vuole. Senza lamentarsi, senza preoccuparsi di capire se il team di Ariana Grande ha lavorato “in modo così geniale!”. Le differenze contano, per me. Poi è chiaro che se fanno vinile, cassetta o cd e ne curano il packaging, bè, preferisco. Amo gli oggetti.
Come mai, a tuo avviso, i negozi di dischi in Italia hanno sofferto più che negli altri paesi? Colpa del pubblico, o dei commercianti? Come valuti la situazione ora?
Vendere i dischi non è (più) come vendere patate. Non metti le novità in vetrina e arrivederci. Ci vogliono la passione e la competenza, che mancavano a molti “generalisti” ormai spazzati via. Te ne accorgi subito, quando entri in un negozio di dischi, se c’è un’impronta forte dietro. Poi, in Italia, questo tipo di cultura da record shop, è sempre stata meno forte. Anche perché da noi il pop sono canzonette e Giuseppe Verdi, invece, cultura. Insopportabile. La svalutazione economica patita dalla musica (streaming, concerti gratis per forza) ha svilito il concetto stesso di musica. La condanna a essere dopolavoristi per forza (di un primo lavoro scomparso anche lui) è intollerabile.
Indipendentemente dalla quantità di dischi comprati, qual è il tuo cliente ideale e quale quello odiato?
Quello curioso e che ascolta quello che compra (paradossale, ma non tutti lo fanno). Quello che si appassiona alle cose, non necessariamente le stesse che piacciono a me. Che sa che i dischi lo rappresenteranno e definiranno per sempre. Quello che si diverte e sorride. Non sopporto i cinici a costo zero che non trovano più niente interessante da (inserire band a scelta…), che ogni nuovo gruppo ricorda qualcosa e allora tanto vale, che quello di cui si parla tanto in fondo è sopravvalutato, quello che cambia sedici volte la sua copia in vinile per averne una sempre migliore, quello che preferisce lo stereo al disco che dovrebbe farci girare sopra. Quelli sempre annoiati: sparatevi!
Hai 100 euro, nessun disco a casa ed entri per la prima volta da Backdoor. Che dischi compreresti?
E bè. Il primo dei Velvet Underground, “The Queen is Dead” degli Smiths, il cd dei Massimo Volume con “Lungo i bordi” e “Da qui” (2 LP in 1 CD), “Bitches Brew” di Miles Davis, il primo dei Big Star. Dovrei aver sforato di 3 euro, ma chiedo lo sconto al Signor Franco, il mio socio. Che non me lo concederà mai.
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