Da venti anni La Tempesta ha un solo di primo piano sulla scena indipendente, e non solo, con produzioni dalla qualità indiscutibile. A parlare con noi è Enrico Molteni uno dei fondatori, nonché bassista dei Tre Allegri Ragazzi Morti (Dan)
Con La Tempesta avete ormai superato i 20 anni di attività. Quale bilancio puoi fare di questi anni?
Il bilancio non può che essere positivo: La Tempesta nasce dall’amore per i dischi e fortunatamente quell’amore c’è ancora, è lo stesso di vent’anni fa.
Tornando indietro fino al 2000, cosa porta una band a creare la propria etichetta? Se non ricordo male, i Tre Allegri Ragazzi Morti uscivano allora con la BMG…
La Tempesta è nata dal rifiuto di alcune dinamiche delle major. Oggi molti angoli sono smussati, il rapporto con le major non è più conflittuale, ma direi che sono contento di aver percorso la nostra strada. E con nostra parlo di me, Davide Toffolo e Luca Masseroni, i Tre Allegri Ragazzi Morti, gli unici soci de La Tempesta. Stare nel lato produttivo della musica e non solo in quello artistico ci ha aiutato ad andare più a fondo nella conoscenza della realizzazione dei dischi. Non che mi piaccia un granché quello che chiamano “music business”, ma pensare che oggi un disco possa avere successo solo “perché la musica è bella” significa non avere una visione d’insieme realistica dell’ingranaggio.
Ad un certo punto, oltre a pubblicare i dischi della vostra band, avete deciso di farlo anche con altri artisti italiani e sono così arrivati Le Luci Della Centrale Elettrica, Il Teatro Degli Orrori, Zen Circus e molti altri… Cosa vi ha spinto a fare questo ulteriore passo?
È stato Giorgio Canali a farcelo capire, il giorno in cui ci disse: “il mio nuovo disco lo faccio uscire con La Tempesta”. Lì si è acceso tutto. Avevamo creato una piccola rete virtuosa di rapporti: il distributore, l’editore, lo stampatore, il grafico, il fotografo, il video maker, l’ufficio stampa… Abbiamo semplicemente messo a disposizione il nostro mondo ai gruppi più vicini.
La Tempesta ha una sua politica? Cosa cercavate/cercate in un artista da produrre?
Ha una sua politica, certo. Non firmiamo mai contratti, tante strette di mano. Una volta recuperati gli investimenti, diamo all’artista il 90% dei guadagni e teniamo il 10%. Direi che è conveniente per l’artista. Certo, non siamo strutturati: non abbiamo dipendenti né uffici. Siamo leggeri. Questo ci permette di fare quello che vogliamo, anche se chiaramente ci impedisce di avere una grande capacità di investimento, e purtroppo il successo di un disco è determinato sempre più dagli investimenti economici. La maggior parte degli artisti con cui abbiamo lavorato e lavoriamo li abbiamo conosciuti girando. Poche volte abbiamo sviluppato contatti arrivati per posta. Quindi c’è sicuramente un grande fattore umano in ciò che facciamo. È importante. Infatti sul lato musicale è difficile trovare una linea di genere, spaziamo dal reggae al noise, dall’elettronica al cantautorato. Nel 2017 abbiamo pubblicato Claudio Lolli e M¥SS KETA a poca distanza; direi che siamo di ampie vedute. Nei nuovi artisti cerchiamo una visione alternativa del mondo basata su una buona conoscenza della realtà, che alle volte può anche essere istintiva.
Al momento di lanciare l’etichetta, avevi qualche modello di riferimento?
Direi che ero affascinato da Dischord, Creation, Factory, 4AD, Touch&Go, Sub Pop, Constellation… Ma anche il CPI, e poi Knifeville, l’etichetta del mio paese (Maniago, diecimila abitanti in provincia di Pordenone), con la quale pubblicavamo solo dischi di musicisti locali.
Qual è la parte più difficile del tuo lavoro e, soprattutto, nel produrre musica italiana? Com’è cambiato l’approccio in 20 anni?
È cambiato molto: l’arrivo del digitale, la scomparsa dei supporti, la ricomparsa del vinile… Ho sofferto molto quando è sparito il supporto, quando la musica è diventata liquida; sono sempre stato molto innamorato dei dischi. Da bambino il CD era il mio metro di valore economico; chiedevo a mio papà quanto costava una bicicletta e lui mi diceva venti CD, una macchina mille CD, una casa diecimila CD, e così via. Ma poi ho capito che la cosa che mi piaceva dei dischi era la musica e quella non stava affatto scomparendo. Ho la fortuna di continuare a confrontarmi con artisti giovani, alle volte mi rendo conto di essere diventato il vecchio zio con un po’ di esperienza utile davvero. Lo zio rock, come Pedrini.
Essere musicisti che fanno i discografici è un vantaggio oppure comporta ulteriori rischi e stress?
Non lo so di preciso, dipende dal livello delle cose che fai. Se fossi Lenny Kravitz credo che penserei a suonare e a tenermi in forma a bordo piscina invece che stare dietro a tutta la macchina produttiva, quello lo lascerei fare a qualcun altro. Come TARM non abbiamo mai avuto un manager, penso fosse nelle nostre corde l’idea di fare da soli, un po’ cocciuti, un po’ innamorati della musica e tutto ciò che questo comporta.
Ulteriore evoluzione dell’etichetta è stata la nascita di La Tempesta International, con l’obiettivo di esportare la musica italiana indipendente all’estero. Come procede il progetto?
Fino al 2010 abbiamo pubblicato solo musica in italiano, e abbiamo avuto la fortuna di vedere band come Fine Before You Came e One Dimensional Man passare dall’inglese all’italiano per la prima volta. Poi dal 2010 abbiamo pensato che era un limite assurdo e abbiamo aperto tutte le porte. Oggi lavoriamo con molti artisti “internazionali”, come i Mellow Mood, che girano il mondo con il reggae, o Populous, che fa ballare tutti ovunque vada. Vorrei anche ringraziare Italia Music Export che aiuta molto i progetti italiani ad uscire dal paese con sostegni concreti. Il mio sogno era quello di vedere un artista italiano diventare famoso nel mondo e forse è arrivato il momento: i Maneskin.
La parola “indipendente” ha ancora valore oggi?
Direi di sì, anche se è diventato difficile spiegarlo.
Com’è cambiato il modo di fare promozione in questi 20 anni?
Bella domanda. So che oggi c’è una grande crisi in quel mondo. Cioè: molti giovani artisti pensano che non sia utile prendere un ufficio stampa, che quei soldi potrebbero essere spesi diversamente. Io chiaramente sono vecchia scuola, e dopo l’aspetto creativo ritengo la promozione la prima cosa più importante. Però capisco cosa intendono, è come se non ci fosse più un rientro diretto dalla comunicazione. Le webzine sono tantissime, i social network cominciano a non funzionare più come prima, la carta stampata è in crisi, la radio commerciale mette sempre e solo merda, in tv diventi un pagliaccio. Effettivamente.
Quanto è il peso del digitale nelle economie dell’etichetta? È predominante rispetto a cd e vinile o i prodotti fisici rendono ancora di più?
Non stampiamo tutto ciò che pubblichiamo, la spina dorsale è comunque il digitale. Devo però dire che col ritorno in pista del vinile un po’ di soldi si muovono di nuovo sul fisico, peccato che fare i vinili sia diventato esasperante: la grande richiesta e la difficile reperibilità delle materie prima hanno allungato i tempi e abbassato la qualità.
Il covid ha sicuramente messo in crisi il music business, da una parte rallentando l’attività live delle band, che credo sia cruciale per una label come la tua. Dall’altra però in molti hanno preso la palla al balzo per rinforzare il lato online e di comunicazione delle etichette nei confronti dei fan delle band. Voi avete avuto una politica particolare in questo periodo di pandemia?
Direi di no. Abbiamo fatto quello che ci sembrava giusto man mano che i giorni passavano. Qualche ristampa in vinile, uscite senza pretese “live”… Ad un certo punto abbiamo però pensato sarebbe stato giusto aspettare e far uscire alcuni dischi a ridosso dell’estate, per permettere alle band di girare, ma credo sia una cosa che hanno pensato tutti e che porterà a breve, parlo di primavera 2022, a dei venerdì da guinness dei primati con 100 titoli che escono contemporaneamente.
Oggi si parla molto di “it pop”. Pensi di avere in qualche modo aperto una strada con alcune delle vostre pubblicazioni?
Sì, credo di sì. Anche se c’è una differenza a mio avviso importante. Il “nostro” it pop era comunque “alternative”. Cioè cercavamo di fare cose che si differenziassero da ciò che andava in radio, un po’ come negli anni novanta. Poi l’onda che è arrivata successivamente secondo me ha “corretto” le nostre stranezze per andare in una direzione che era di nuovo quella più facile per tutti. A me piacciono le cose strane e storte, da sempre, non ci posso fare niente, motivo per cui tanta musica it pop di successo non mi piace.
Qual è l’attualità dell’etichetta?
Tutto è come il primo giorno, tranne il catalogo. I soci siamo io, Davide e Luca. Sono io però che seguo l’etichetta tutti i giorni, che faccio il lavoro d’ufficio. Un po’ perché mi piace, un po’ perché ormai ci sono dentro fino al collo. Non abbiamo dipendenti, non abbiamo uffici, ho una scrivania in condivisione da Legno a Milano. Stiamo per pubblicare bei dischi in primavera: Generic Animal, Post Nebbia (con Dischi Sotterranei), 72-Hour Post Fight, L I M, LNDFK, The Sleeping Tree, Nicolaj Serjotti, i TARM coi Cor Veleno, Buñuel, Giallorenzo, Ardecore… e me ne perdo sicuramente qualcuno!
Non possiamo non parlare dei mitici TARM, che fin dall’inizio hanno sempre avuto un’attitudine punk (inevitabile visto il background dei musicisti e la provenienza). Cosa ricordi dei primi anni della band e come spiegheresti i TARM a chi è stato ibernato negli ultimi 20 anni?
Oddio, qui dovrei scrivere un libro! Posso dire che sono felice di aver incontrato Davide e Luca, mi hanno insegnato molto. A chi è stato ibernato per 20 anni direi di bersi un caffè, di ascoltare “Primitivi del futuro” e di venire ad un nostro concerto appena possibile, a fine serata gli raccontiamo tutto.
Come nasce la recente collaborazione con i Cor Veleno?
Davide ha vissuto a Roma per un po’ di anni e ad un certo punto ha cominciato ad andare in studio dai Cor Veleno a registrare idee. È nato così. Poi Luca ha suonato le batterie e le ha spedite, io sono andato a metterci delle chitarre per riportare un po’ il suono dalla nostra parte “rock”. Secondo me ne è venuto un bel disco, speciale perché celebra un incontro tra realtà diverse, è un inno alla fratellanza.
LA DOMANDA DEL MAGO TRIPPONE
Può un assorbente cambiare la vita di una donna?
Se ti riferisci al modello scozzese, sì, sono d’accordo: assorbenti gratuiti per tutte le donne.
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