Deniz Tek è uno di quegli artisti che non vedi l’ora di intervistare perché, oltre ad aver scritto canzoni fantastiche con i Radio Birdman, hanno una vita sorprendente da raccontare. Con lui si finisce per parlare di Detroit e Ann Arbor, dell’Australia, della marina militare e della coltivazione del caffè, senza dimenticare ovviamente la musica. Tanti argomenti che il musicista americano affronta con una disarmante semplicità.
Quanto hanno influenzato la tua formazione musicale la scena di Ann Arbor, città universitaria, e quella di Detroit, Motor City pregna di rock’n’roll, nonché luogo di nascita della Motown?
Sono cresciuto ad Ann Arbor e non ho vissuto a Detroit, se non molto più tardi nella mia vita. Anche se si trova a soli 45 minuti di auto, a ovest, Ann Arbor è culturalmente molto diversa. È una piccola città con una grande università e che offre quindi un libero accesso alle arti. Se Detroit era dura, grigia e industriale, Ann Arbor era invece più leggera, verde e bohémien. Io ero un adolescente all’epoca della scena di Ann Arbor. The Rationals, The Stooges, Bob Seger, Carnal Kitchen, Amboy Dukes, Commander Cody, sono tutti usciti da Ann Arbor. La prima band rock che abbia mai visto sono stati proprio i Rationals che avevano suonato nella mia scuola. Avevo 13 anni, ero estasiato e ho subito capito che volevo far parte di qualcosa del genere. Molte delle band di Detroit, compresi gli MC5 e Alice Cooper, si sono trasferite ad Ann Arbor tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. C’erano concerti gratuiti ogni fine settimana, per tutta l’estate. Da adolescente sono rimasto parecchio ad Ann Arbor perché, per prima cosa, Detroit era difficile da raggiungere se non avevi la macchina, e poi c’era sempre molta musica in giro e tutte le band di Detroit suonavano spesso anche da noi. È lì che ho scoperto la maggior parte delle mie influenze. L’influenza di Detroit è stata principalmente legata alla Motown e alle sue stazioni radio.
Cosa ricordi di quella mitica scena di Detroit di fine sixties? Come spieghi il suo grosso impatto sulla musica rock e punk, palpabile ancora oggi?
Nel secolo scorso, Detroit è stata la meta di una grande migrazione di persone che venivano a lavorare nelle fabbriche di automobili o nelle industrie correlate. Dal Sud vennero neri e tanti bianchi poveri, arrivarono anche molti europei. Il mix culturale era davvero ampio e da questo venivano fuori tutti i tipi di musica. L’impatto maggiore, ovviamente, fu la Motown, che oscurò di gran lunga le scene locali di beatnik, blues, jazz e rock and roll. Il rock più energico ha avuto un breve momento di gloria sul finire degli anni sessanta. Il fattore comune era che le persone di Detroit lavoravano duramente, erano fieramente indipendenti e non amavano la hype. Erano orgogliosi di essere “Detroiters”: hanno fatto auto e camion fantastici e hanno costruito bombardieri e carri armati che hanno contribuito a schiacciare i nazisti. Ciò che era considerato alla moda in una scena rilassata come quella di Los Angeles o dal pubblico più artistico di New York non funzionava necessariamente a Detroit. C’erano un paio di locali rock, il Grande Ballroom e l’Eastown, dove suonavano sempre band locali. Più tardi, quando Detroit ebbe la reputazione di essere la patria dell’hard rock, anche molte delle grandi band internazionali si esibirono lì. Alcuni di loro, come i Cream, hanno avuto difficoltà a capire la gente del posto, ma gli Who hanno sempre fatto bene a Detroit, così come gli Stones. La musica locale era rumorosa, aggressiva e aveva una forte attitudine. Era, per sua natura, a favore della libertà e contro l’autorità, e parte di quell’energia fu trasferita nel movimento punk, che era in larga misura una reazione contro l’autocompiacimento e lo status quo.
A tuo avviso, la presenza della Motown a Detroit ha avuto un peso nell’integrazione razziale e musicale?
Ha giocato un ruolo importantissimo. Dal punto di vista di un musicista o di un fan, non c’era separazione tra bianco e nero, c’era solo la musica.
Cosa ha comportato per te, a livello personale e artistico, il fatto di trasferirti a Sidney e, più in generale, in Australia?
Volevo indipendenza e scoprire nuove terre. È stato un nuovo inizio in un nuovo paese che ho amato. Ho sempre desiderato vivere in riva all’oceano e imparare a fare surf. Sono arrivato lì a 19 anni portando la mia musica con me.
Cosa ricordi dei primi anni dei Radio Birdman? Com’è avvenuto l’incontro con Rob Younger?
Condividevo una casa per studenti con Ron Keeley, che stava in una band chiamata The Rats assieme a Rob. E lo portò a casa. È così che l’ho incontrato. Anche John Needham viveva lì. A quel tempo ero in un altro gruppo, i TV Jones. Ogni tanto le due band condividevano lo stesso cartellone e io e Rob siamo diventati amici. Stavamo seduti tutta la notte ad ascoltare dischi. Più tardi, nel 1974, i Rats si sciolsero e io fui cacciato dai TV Jones. In quel momento Rob e io dividevamo una casa, abbiamo così fondato i Radio Birdman, che abbiamo assemblato con ragazzi che facevano parte delle nostre band precedenti. Ron alla batteria e Carl Rorke, dei Rats, al basso, mentre alle tastiere c’era Pip Hoyle, uno studente di medicina che era stato brevemente nei TV Jones.
I Radio Birdman sono da sempre associati alla musica punk. Pensi che questa definizione sia un po’ riduttiva per descrivere la musica del gruppo?
Non è una definizione giusta ed accurata. Siamo una rock and roll band con influenze diverse. Chiunque ascolti seriamente la nostra musica lo avrà capito.
I Radio Birdman sono considerati una grossa influenza da tantissime band, che spesso hanno fatto cover dei vostri pezzi. Ce ne sono alcune che ti hanno colpito o questo fenomeno non ti è mai interessato? C’è invece qualche canzone di artisti per te fondamentali che avresti voluto riprendere o che hai in programma di fare?
Raramente sono stato interessato alle cover delle nostre canzoni, poiché raramente esplorano nuovi territori. Un’eccezione potrebbe essere la versione di “If I wanted to” fatta dai Bellrays. Ma è una cosa fantastica aver influenzato altre band che, con quell’influenza, hanno poi creato qualcosa di nuovo. Abbiamo fatto cover di centinaia di canzoni e ogni volta che andiamo in tour ne scegliamo delle altre da fare. Recentemente abbiamo ripreso “Glass onion” dei Beatles, “Not to touch the earth” dei Doors e “Shot by both sides” dei Magazine. Una canzone che mi sarebbe piaciuto fare era “The real me” degli Who. L’abbiamo provata ma non siamo riusciti a farla come volevamo.
Qual è stata secondo te la forza dei Radio Birdman e il loro punto debole?
La nostra forza è mettere il massimo impegno nella nostra musica in qualsiasi momento e mai compromettere i nostri valori musicali. Non abbiamo un punto debole ora: quando in passato c’è stata una debolezza, l’abbiamo eliminata, anche se spesso non abbastanza rapidamente.
Come valuti oggi i progetti successivi, The Visitors e New Race?
Entrambe le band erano eccellenti alternative ai Radio Birdman nei periodi in cui questi non potevano esistere. Le registrazioni suonano bene ancora oggi e non cambierei nulla di nessuna delle due band.
Hai collaborato con tanti musicisti diversi, cosa ti spinge alla scelta di uno o di un altro per affiancarti nella realizzazione di un album? La bravura tecnica? Lo stile o il feeling che pensi si possa creare tra di voi?
Lo stile deve essere coerente con quello che faccio. Devo essere in grado di entrarci. Anche il lato personale in un rapporto di lavoro deve essere buono. L’abilità tecnica è la cosa meno importante.
Riascoltando le canzoni di “Take it to the Vertical” e confrontandole con quelle dei tuoi ultimi dischi, sei soddisfatto del tuo percorso d’autore?
Non penso mai a questo, davvero. Il percorso si è fatto così, senza preconcetti o pianificazioni. Non ne sono né soddisfatto, né insoddisfatto.
Il tuo approccio alla scrittura cambia a seconda del progetto, ovvero con i Birdman o qualche altra tua band o da solista?
Sì. Quando compongo per una band, o per altri musicisti, scrivo quello che penso possa funzionare bene per loro. Quando lo faccio per i Radio Birdman, cerco di scrivere canzoni che Rob possa interpretare sentendosi a suo agio. È essenziale: se ci sta dentro, so che funzionerà. Quando ho scritto le canzoni per il mio ultimo album con James Williamson, ho tenuto a mente il suo stile di chitarra unico e ho scritto parti che sapevo sarebbero state ottime per i suoi assoli. Quando scrivo per me stesso, ho invece una libertà totale e posso fare qualsiasi cosa.
Hai una carriera musicale molto ricca ma hai trovato anche il tempo per completare gli studi diventando medico militare? Intanto come mai la scelta dell’esercito (la US Navy, ndr)?
Sono entrato nell’esercito perché volevo pilotare aerei. La band si era sciolta ed era quindi tempo di fare qualcosa di diverso. Fin dall’infanzia, ho sempre amato l’aeronautica e quel momento è stato l’occasione giusta per farlo.
Essere uno studente e avere una band: è stato difficile conciliare le due cose?
No, non era troppo difficile. Lo è forse di più rispetto a stare seduti a guardare la TV e drogarsi mentre si ha una band.
Da medico cosa pensi dell’attuale pandemia e di come ne usciremo?
Ci penso probabilmente più o meno come voi. Ovviamente è grave, ma non così grave come altre pandemie. La peste nera, per esempio, o il vaiolo, o l’influenza spagnola del 1918-1920… Questo virus è stato probabilmente creato in un laboratorio. Ne usciremo dopo che quasi tutti saranno stati infettati o vaccinati.
Sappiamo che ti dedichi anche alla produzione di caffè (sul sito si può leggere che i terreni di famiglia si prestavano a questo tipo di coltivazione, ndr). Com’è nata questa idea?
Mia madre mi ha chiesto di piantare del caffè. Ho detto: «OK mamma». È così che è iniziato. È la verità!
Qui potrete trovare la storia del caffè di Deniz:
Noi italiani siamo dei feticisti del caffè, che in varie zone del nostro paese puoi bere in maniere diverse e ci sono varie scuole di pensiero tra chi lo beve solo espresso nei bar e chi invece non può fare a meno della Moka casalinga. Hai avuto modo di scoprire anche il caffè italiano nei tuoi tour?
Ho imparato a conoscere il buon caffè in Italia, il miglior posto al mondo da questo punto di vista. È tutto merito del vostro paese se sono diventato un “freak”” del caffè. A casa usiamo una Moka.
Mi ha molto incuriosito anche la possibilità di acquistarlo insieme ai tuoi dischi. È una possibilità che i tuoi fan hanno scelto e apprezzato?
Molte persone interessate alla musica lo sono anche del caffè. Ma te lo aspetteresti da persone che hanno buon gusto.
Se avete buon gusto sia per la musica che per il caffè eccovi il link giusto:
https://www.deniztek.com/recordst-shirts-etc
Hai altre passioni o hobby?
Come ho detto, gli aeroplani … anche se adesso non volo più. Mi piacciono i film e i dischi. Leggere la storia. Nuotare nell’oceano. E gioco regolarmente a tennis con James Williamson.
C’è un obiettivo o sogno che vorresti raggiungere nei prossimi anni?
Solo registrare il prossimo album. E fare qualche concerto, se e quando sarà possibile.
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